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Newsletter n. 01 / Gennaio 2022
a cura dello Studio Legale Tributario Torcello in collaborazione con Confindustria Chieti Pescara
Questa newsletter porta la firma dell’Avvocato Davide TORCELLO e dell’Avvocato Giovanna BRATTI.
In tema di criminalità di impresa, si fa spesso ricorso allo strumento “cautelare” del sequestro preventivo (diretto o per equivalente); per il tramite del quale, già nella fase delle attività di indagine, è possibile “congelare” ciò che si presume costituire il prezzo e/o il profitto del reato.
Per i reati tributari, nel caso di condanna (o in caso di cd. patteggiamento ex art. 444 c.p.p.) è infatti prevista, quale sanzione, la confisca dei beni che sono stati utilizzati ai fini della commissione dell’illecito (il prezzo del reato); ovvero dei beni che ne hanno costituito il vantaggio economico (il profitto del reato; rappresentato, per la maggior parte degli illeciti fiscali, dall’imposta evasa).
La misura cautelare del sequestro risulta finalizzata a garantire l’effettiva esperibilità della confisca; laddove, in conclusione del procedimento, sia accertata la responsabilità penale del soggetto agente.
Con particolare riferimento alle ipotesi in cui gli illeciti fiscali siano ascritti alle società, il sequestro, nella prassi, viene effettuato in relazione alle somme detenute sui conti correnti societari (fino a concorrenza dell’importo che rappresenta il profitto o il prezzo del reato). Con ciò determinando, nei fatti, un’immobilizzazione della liquidità; che colpisce direttamente i conti della società.
È bene sul punto evidenziare che nei confronti delle società e delle imprese (contrariamente rispetto a quanto accade per le persone fisiche), sarebbe possibile esperire solo il cd. sequestro preventivo diretto; il quale risulta finalizzato alla confisca di denaro (o di altri beni fungibili) o di beni direttamente riconducibili al profitto del reato. Con ciò escludendosi, nei confronti delle persone giuridiche, l’esperibilità del sequestro preventivo volto alla cd. confisca per equivalente nei confronti di ulteriori beni societari (ad eccezione di quanto previsto, per alcuni delitti tributari, dalle nuove disposizioni in tema di responsabilità amministrativa degli enti ex D.Lgs. n. 231/2001).
A tal proposito, nella prassi, si è posta spesso la questione circa l’assenza di indizi di collegamento fra la commissione del reato e le somme detenute sui conti correnti societari (somme da sottoporsi a sequestro ai fini della cd. confisca diretta). In altre parole, ci si è chiesto se sia necessaria la sussistenza di nesso di pertinenzialità fra le giacenze bancarie e l’illecito attribuito alla società.
Tale problematica, in particolare, deriva dal fatto che:
da un lato, le attività di accertamento e le indagini di natura penale vengono effettuate anche a distanza di anni rispetto al momento di consumazione del reato;
dall’altro lato, nella maggior parte dei casi il risultato dell’illecito non è tanto un “accrescimento” delle giacenze; quanto piuttosto un risparmio di imposta.
A ciò si aggiunga che le somme presenti sul conto corrente potrebbero essere confluite successivamente rispetto al momento in cui si presume sia avvenuta la perpetrazione del reato; ovvero potrebbero avere una derivazione lecita (venendo così a cadere il nesso di pertinenzialità di cui sopra).
Sul punto sono intervenute, nella recente sentenza n. 42415 del 18.11.2021, le Sezioni Unite della Corte di Cassazione; le quali hanno preso posizione sulla questione (a tacitazione, almeno per ora, dei contrastanti orientamenti della dottrina e della giurisprudenza di legittimità sviluppati sul punto).
Stante la natura del denaro quale bene fungibile, le Sezioni Unite hanno affermato che gli importi presenti sul conto corrente possono essere direttamente aggrediti in sede di accertamento penale; qualunque ne sia la derivazione e la relativa modalità di acquisizione.
Il nesso fra il denaro e la commissione del reato, dunque, parrebbe configurarsi in re ipsa.
Secondo i Giudici di legittimità, la somma di denaro che ha costituito il prezzo (o il profitto) del reato non va considerata nella sua fisica consistenza; quanto piuttosto nella sua ontologica natura di “bene fungibile e paradigma di valore”. Se il prezzo (o il profitto) del reato è rappresentato da una somma di denaro non può che confondersi, fisiologicamente, con altre componenti del patrimonio societario.
Del resto, risulterebbe irrilevante (ed al limite del paradosso) che la misura colpisca le medesime banconote; ottenute dall’autore quale diretta derivazione dell’illecito commesso.
Lo scopo della misura consiste, infatti, nell’inseguire gli importi che abbiano determinato un incremento del patrimonio dell’autore del reato (mediante l’ablazione delle somme già entrate nel patrimonio di quest’ultimo); e non la confisca diretta delle medesime banconote.
Secondo tale ragionamento, la Suprema Corte ha ritenuto parimenti irrilevanti le vicende che abbiano interessato le somme connesse al reato; una volta che le stesse (quale massa monetaria fungibile) siano state reperite nel patrimonio del reo al momento dell’esecuzione della confisca (o del precedente vincolo cautelare del sequestro).
Rimane da sciogliere il dubbio relativo alle ipotesi in cui il vantaggio economico conseguito mediante l’illecito fiscale sia costituito dal risparmio di imposta; senza contare il fatto che si possa correre il rischio di congelare (e poi aggredire) somme che, a distanza di anni, possano risultare completamente svincolate da qualsivoglia intento criminoso.
Avvocato Davide TORCELLO
Avvocato Giovanna BRATTI
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