Newsletter n. 18 / Ottobre 2021
a cura dello Studio Legale Tributario Torcello in collaborazione con Confindustria Chieti Pescara
Questa newsletter porta la firma dell’Avvocato Giovanna BRATTI e dell’Avvocato Davide TORCELLO
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Il superamento della cd. soglia di punibilità è elemento di non poco conto ai fini della determinazione dell’area del “penalmente rilevante”: l’esatta quantificazione dell’imposta evasa può, infatti, determinare la punibilità o meno della condotta dell’imprenditore.
In tema di reati tributari, l’art. 5 del D. Lgs. n. 74/2000 persegue penalmente la condotta dell’imprenditore che, pur essendovi obbligato, non procede alla presentazione delle dichiarazioni fiscali relative alle imposte sui redditi o sul valore aggiunto; laddove l’importo dell’imposta evasa è superiore ad € 50.000,00 (con riferimento a taluna delle singole imposte).
Il Legislatore ha scelto di condizionare l’operatività della predetta norma incriminatrice al raggiungimento della cd. soglia di punibilità; la quale, nell’ancorare a “parametri numerici” la rilevanza penale della condotta, delimita l’ambito di applicabilità delle fattispecie delittuose in ambito tributario. Ciò con l’obiettivo di punire solo le azioni e/o omissioni dell’imprenditore; che risultino, in concreto, idonee a ledere gli interessi economici erariali.
La cd. soglia di punibilità, infatti, rappresenta un elemento costitutivo del reato (come ormai affermato dalla giurisprudenza di legittimità maggioritaria; cfr. sul punto, Cass. sentenza n. 32490/2018); la cui rappresentazione (ed il conseguente superamento) costituisce frutto della volontà e dell’intenzione del reo.
Il giudice penale, dunque, nella fase di accertamento (e conseguente determinazione) dell’imposta evasa ai fini della valutazione del raggiungimento della predetta soglia, deve tener conto di tutti gli elementi reddituali e contabili relativi all’azienda (costi; ricavi; proventi ed oneri); i quali, anche se non contabilizzati, devono risultare, in ogni caso, documentalmente provati.
In tale ambito, potrebbe anche verificarsi un disallineamento tra quanto stabilito in sede penale e quanto accertato in sede tributaria: vale a dire che, nel giudizio penale, potrebbe emergere un’imposta evasa in quantità inferiore alla soglia di punibilità (con conseguente proscioglimento dell’imputato).
Ciò in quanto l’accertamento penale privilegia una verifica “sostanziale”; volta a valorizzare il dato fattuale rispetto ai criteri di natura meramente formale (propri, invece, dell’accertamento tributario); avvalendosi di modalità differenti di acquisizione delle prove e di valutazione delle stesse.
Sul punto, occorre segnalare la recentissima sentenza n. 34661/2021 del 20 settembre u.s. emessa dalla Suprema Corte di Cassazione; la quale, pronunciandosi in una fattispecie di omessa dichiarazione fiscale, ha “salvato” il titolare di una ditta individuale, accusato di aver evaso (oltre alle imposte dirette) l’IVA in misura superiore ad €50.000,00 ai sensi dell’art. 5 del D. Lgs. n. 74/2000.
Secondo la pronuncia, l’accertamento del superamento della predetta soglia di punibilità deve essere condotto anche mediante la contrapposizione cartolare tra l’IVA risultante dalle fatture emesse e l’IVA detraibile risultante dalle fatture ricevute; non potendo rilevare, in tal senso, l’eventuale difetto di produzione, da parte dell’imputato, di tutte le fatture passive.
Ciò in quanto, favorendo un’ottica sostanziale entro cui condurre tale accertamento, occorre dar conto di tutti gli elementi probatori certi acquisiti all’interno del giudizio.
Il giudice penale, infatti, può fondare il proprio libero convincimento sui verbali di constatazione redatti dalla Guardia di Finanza; nonché su qualsiasi elemento derivante dalle indagini penal – tributarie, condotte dagli organi accertatori (purché acquisito agli atti).
Nella pronuncia in commento, i Giudici di legittimità, nella ricostruzione dell’ammontare dell’imposta, hanno, dunque, valorizzato tutti i costi aziendali (pur se non contabilizzati) emersi nell’istruttoria del giudizio.
È stata così cassata la sentenza del grado di appello; in quanto, nella verifica della delittuosità della condotta, ha ritenuto la mancata contabilizzazione di costi aziendali quale causa ostativa alla valorizzazione degli stessi.
La Corte di Cassazione ha, contrariamente, sostenuto che i predetti costi (anche se emersi, durante l’istruttoria, dalla documentazione acquisita dalla Guardia di Finanza presso soggetti terzi; che avevano intrattenuto rapporti commerciali con l’imputato) avrebbero dovuto essere computati per la determinazione dell’imposta evasa (e per il conseguente controllo circa il superamento della cd. soglia di punibilità).
Alla luce di quanto esposto, occorre rilevare la direzione intrapresa dalla giurisprudenza di legittimità nell’ambito del diritto penale tributario; la quale, anche con particolare riferimento ai reati di omessa dichiarazione, pare si stia muovendo in una direzione “fattuale” entro cui condurre l’accertamento della responsabilità penale dell’imprenditore.
Con ciò comportando, in capo al giudice penale, l’onere di procedere ad un vaglio specifico di tutti gli elementi probatori emersi nel giudizio (durante l’istruttoria processuale e procedimentale); al fine di giungere ad una effettiva quantificazione dell’imposta evasa, che non può tener conto solo del mero dato formale (a cui, invece, sembra ancora esser ancorato l’accertamento tributario).
Avv. Giovanna BRATTI
Avv. Davide TORCELLO
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