Newsletter, n. 05 / Febbraio 2021, di Confindustria CH-PE a cura dello Studio Legale Tributario Torcello.
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La Corte Suprema di Cassazione, con la sentenza n. 34475 depositata il 3 dicembre scorso, è tornata a pronunciarsi in merito alla responsabilità penale degli amministratori membri del C.d.A. di una società per azioni; con riferimento ai reati tributari di omesso versamento dell’Imposta sul valore aggiunto (IVA) e delle ritenute, di cui agli artt. 10 bis e 10 ter del D. Lgs n. 74/2000.
La terza sezione penale della Cassazione, dunque, ha ritenuto perpetrati tali reati tributari da parte di tutti i componenti del C.d.A. che risultavano in carica al momento della consumazione; ciò a prescindere tanto dal concreto ruolo svolto da ciascun singolo amministratore, quanto dal “riparto interno” delle competenze fra gli amministratori medesimi.
L’adempimento degli obblighi dichiarativi gravanti in capo alla società contribuente, infatti, integra un’ipotesi di ordinaria amministrazione; il cui dovere di osservanza incombe in capo a ciascun amministratore, salvo diverse previsioni dello statuto societario.
Nella fattispecie qui in esame, tutti i membri del C.d.A. della società coinvolta avevano impugnato la sentenza resa al culmine del grado di appello; la quale, secondo la ricostruzione dei ricorrenti per cassazione, aveva erroneamente affermato la sussistenza di una responsabilità oggettiva in capo ai medesimi.
Secondo quanto censurato, pertanto, la sentenza della Corte d’Appello avrebbe prescisso dal ruolo effettivamente ricoperto da ciascun amministratore; nonché dalla specifica responsabilità di ognuno di essi in ordine all’adempimento degli obblighi tributari.
La dichiarazione fiscale oggetto di interesse, infatti, sarebbe stata sottoscritta esclusivamente dal Presidente del C.d.A. (e non anche dagli altri tre amministratori imputati); il che conduceva i ricorrenti a sostenere che non fosse possibile, a tal proposito, rilevarne la condotta.
Sempre a detta dei ricorrenti, la sentenza pronunciata dal Giudice dell’appello non avrebbe tenuto debitamente conto, ai fini della modulazione del trattamento sanzionatorio, della grave crisi economica nella quale versava la società; nonché del parziale pagamento dell’obbligazione tributaria (a seguito della rateizzazione del relativo carico).
I ricorrenti avevano censurato, altresì, l’ordine di confisca per equivalente avente ad oggetto taluni beni degli imputati; ciò stante la mancanza dei requisiti previsti ex lege, alla luce dell’omessa dimostrazione dell’incapienza del patrimonio della società.
La Corte Suprema di Cassazione, nella pronuncia di cui si ragiona, ha rigettato i motivi di doglianza dei ricorrenti; delineando i confini di applicabilità, dal punto di vista soggettivo, delle fattispecie delittuose omissive di cui agli artt. 10 bis e 10 ter del D. Lgs. n. 74/2000.
Questo con particolare riferimento alla natura di “reati propri” degli illeciti contestati; i quali risultano connessi, evidentemente, alla particolare qualifica del soggetto che pone in essere la condotta delittuosa.
Di tali delitti, infatti, risponde l’amministratore in carica al momento della scadenza del termine previsto per l’adempimento fiscale; essendo sufficiente, a tal fine, il dolo generico in capo al medesimo amministratore (ad eccezione, in ogni caso, di eventuali cause di non punibilità).
È quest’ultimo, infatti, il soggetto preposto all’espletamento degli obblighi tributari (salvo eventuali diverse disposizioni statutarie). Ciò in quanto l’assunzione della carica di amministratore comporta l’assolvimento di doveri di vigilanza e di controllo in relazione alla corretta gestione degli adempimenti societari, fra i quali quelli tributari; la cui violazione può determinare l’insorgenza di responsabilità penale dolosa in capo all’amministratore medesimo.
La valenza di tale principio (la cui operatività è stata riconosciuta dalla giurisprudenza di legittimità persino in relazione ad ipotesi di “prestanomi” che abbiano agito quali “amministratori di fatto”) risulta ancora più stringente ove si consideri che, nel caso in esame, vi era una pluralità di amministratori; i quali avrebbero tutti dovuto sorvegliare circa il corretto adempimento dell’obbligazione tributaria.
Per tali ragioni la Suprema Corte, nella sentenza in commento, ha censurato l’operato di tutti gli amministratori ricorrenti; titolari del potere gestorio di cui all’art. 2475 c.c. (in mancanza di diverse previsioni dell’atto costitutivo o di quello di nomina).
Ciascun amministratore, anche disgiuntamente, avrebbe potuto procedere al versamento dell’IVA e delle ritenute di legge.
Ciò in quanto, da un lato, erano state rilasciate relative deleghe in favore di ogni amministratore; dall’altro, l’oggetto sociale era ampio nel prevedere, in capo ad ognuno, il potere di rappresentanza negoziale e giudiziale della società (compreso il potere di procedere ai pagamenti in nome e per conto della stessa).
Agli occhi dei Supremi Giudici, non hanno assunto rilevanza nemmeno le deduzioni circa l’asserita grave crisi economica nella quale si sarebbe trovata la società; poiché sarebbe stata una scelta consapevole e “strategica”, da parte degli amministratori, quella di tentare di sanare la situazione di dissesto mediante l’omissione di versamenti fiscali (omessi versamenti, peraltro, reiterati ed avente ad oggetto ingenti somme).
Infine, per ciò che concerne la confisca per equivalente, la Suprema Corte ha ritenuto integrato il requisito di sussidiarietà dell’esecuzione sui beni degli amministratori (nel rispetto anche della normativa vigente ratione temporis); dato che lo stato di liquidazione della società ne aveva determinato l’incapienza e l’indisponibilità del patrimonio su cui attuare la confisca.
Avv. Giovanna Bratti Avv. Davide Torcello
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