Newsletter, n. 01 / GENNAIO 2021, di Confindustria CH-PE a cura dello Studio Legale Tributario Torcello.
Scarica gratuitamente l’articolo in formato PDF.
La Corte Suprema di Cassazione, con la recentissima sentenza n. 641 del 9 ottobre 2020 (depositata l’11 gennaio 2021), ha statuito che, ai fini della configurabilità del reato di dichiarazione infedele, si debba tenere conto anche dei cd. “costi fissi” (dicitura che la stessa sentenza riconosce come “atecnica” e che traduce come le “spese di carattere generale dell’imprenditore”); ciò nell’ottica dell’accertamento dell’avvenuto superamento della soglia di punibilità prevista per detto reato.
La questione rimessa al Supremo Collegio, qui in commento, muoveva dall’impugnazione avanzata da taluni imprenditori milanesi; i quali, in precedenza, erano stati condannati dalla Corte d’Appello competente.
In via di estrema sintesi e per quanto di interesse, si fa presente che sia nel corso del primo grado di giudizio che di quello di appello, i Giudicanti avevano ritenuto essersi verificata un’ipotesi delittuosa di dichiarazione infedele.
Come noto, detto reato (previsto e punito dall’art. 4 del D. Lgs. n. 74/2000) sanziona chiunque, al fine di evadere le imposte sui redditi o sul valore aggiunto, indichi in una delle dichiarazioni annuali riferite a tali imposte elementi attivi per un ammontare inferiore a quello effettivo; od elementi passivi inesistenti. Ciò a condizione che l’imposta evasa risulti superiore a centomila euro (con riferimento a ciascheduna delle singole imposte); e che il complesso degli elementi attivi sottratti all’imposizione (anche tramite l’esposizione di elementi passivi inesistenti) si configuri quale superiore al 10% di quelli indicati in dichiarazione (o, in ogni modo risulti superiore a due milioni di euro). E’ altresì previsto, ai fini della configurabilità del predetto reato tributario, che tali previsioni debbano realizzarsi congiuntamente.
Come accennato, all’esito del giudizio di appello (e stante la pronuncia della sentenza a loro sfavorevole), gli imprenditori coinvolti ricorrevano per la cassazione della medesima.
Uno dei ricorrenti deduceva, all’uopo, “violazione di legge e mancanza e contraddittorietà della motivazione” in riferimento alla pronuncia dei Giudici di appello; ciò “in relazione alla quantificazione della soglia di punibilità dell’imposta evasa”.
In particolare, il ricorrente si doleva del fatto che, nel quantificare l’ammontare del fatturato, non fossero stati debitamente tenuti in considerazione i costi sopportati nel corso delle operazioni oggetto della controversia; ciò in spregio al contenuto della perizia tecnica di parte, prodotta dal medesimo imprenditore nel corso del precedente grado di giudizio.
Inoltre, la difesa del medesimo ricorrente rilevava che tale mancata considerazione dei predetti costi aveva prodotto una contraddizione nella motivazione della sentenza oggetto di ricorso.
L’eccezione così sollevata dall’imprenditore è risultata, a conti fatti, vincente: a tal proposito, infatti, la Suprema Corte ha rilevato quanto segue.
La mancata considerazione, da parte dai precedenti Giudicanti investiti della controversia, dei “costi fissi” sopportati (e, conseguentemente, della loro influenza sul computo necessario ai fini della quantificazione del superamento o meno della soglia di punibilità, prevista per legge ai fini dell’integrazione del reato), è emersa secondo la Cassazione dal fatto che le relative deduzioni difensive fossero state disattese “mediante la assiomatica affermazione della impossibilità di tenere conto di “costi fissi” invece considerati dalla predetta consulenza”.
Secondo la Suprema Corte, il generico riferimento compiuto dai Giudici di appello alla natura “fissa” di tali costi ha finito con lo sfociare in una motivazione apparente; in quanto tale, inidonea a far comprendere le ragioni per le quali le valutazioni mosse dal consulente tecnico, a loro tempo, non fossero da loro prese in considerazione.
Sul punto, la Suprema Corte ha dapprima precisato che la Corte d’Appello aveva “verosimilmente (…) inteso, con il riferimento alla atecnica dizione di costi “fissi”, indicare le spese di “carattere generale” dell’imprenditore”); per poi richiamare espressamente i criteri di deducibilità e di inerenza dei costi (ritenuti rinvenibili nel disposto dell’art. 109 c. 5 del T.U.I.R.).
Secondo il Giudice di legittimità, infatti, “il criterio di deducibilità dei costi non è rappresentato dalla natura “generale” o meno dei costi sopportati dal contribuente”; bensì, dall’effettiva operatività, nella fattispecie esaminata, del requisito dell’inerenza dei costi d’impresa.
A tal proposito, la Cassazione ha rammentato che si rinviene la sussistenza del requisito dell’inerenza “ogni qualvolta i costi siano riferibili a qualsiasi operazione idonea a produrre reddito”; ciò poiché la riferibilità medesima sarebbe da riferirsi all’oggetto sociale dell’impresa (e non, invece, ai ricavi).
Dott.ssa Ida Salerno Avv. Davide Torcello
Scarica gratuitamente l’articolo in formato PDF